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Francesca Malacarne: “La danza è sognare in grande”

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di Antonio Desiderio

La danza è il suo mondo, ieri come ballerina e oggi come docente. Scopriamo Francesca Malacarne attraverso questa intervista.

Come sei arrivata alla danza?

“Fu mia madre a portarmi in una scuola di danza, perché mi vedeva ballare davanti alla TV. Era il periodo di “Fantastico” e il sabato sera aspettavo le sigle di Heather Parisi e poi di Lorella Cuccarini, che conoscevo a memoria, per esibirmi davanti alla mia famiglia. In più, durante la settimana, mi piaceva creare spettacoli per la mia famiglia: facevo tutto da sola, mi vestivo, mi truccavo, mi presentavo, facevo imitazioni e terminavo sempre con un balletto. Peccato che, col tempo, ho perso un po’ di quella leggerezza, ma non la voglia di esibirmi e danzare. Un anno, credo fosse il 1986, vidi in TV una lezione del maestro Victor Lietinov, nel programma “Al Paradise” dove danzavano Carla Fracci, Heather Parisi, Raffaele Paganini e Gheorghe Iancu, e dissi a mia madre: “Voglio ballare quello!” Oggi, devo dire, di una contemporaneità esemplare. Così mia mamma mi portò in una scuola di danza e, fin dalle prime lezioni, mi sembrava di aver sempre fatto danza classica. Iniziai con la propedeutica, e presto mi ritrovai a studiare alla sbarra, tutto mi sembrava così naturale”.

Dove cominciano i tuoi studi?

“I miei studi iniziarono nel mio paese in Toscana, a Pontedera (Pisa), presso la scuola di danza classica diretta dal M° Renato Fiumicelli. Fu un maestro che mi prese sotto la sua “ala artistica e formativa” e per anni mi fece sentire una privilegiata; gli sarò sempre grata. Mi ha insegnato tanto, con lui ho studiato il metodo Cecchetti, in particolare i principi dinamici e ritmici dei passi, con riferimenti agli insegnamenti che aveva ricevuto da colui che considerava il  suo Maestro, Aurelio M. Milloss. Ancora oggi custodisco quei “segreti” che il Maestro Fiumicelli mi ha trasmesso in sala danza, ma soprattutto sul palco.  Nel 1982 ideò il “Festival Nazionale delle Scuole di Danza Renato Fiumicelli”, che ancora oggi si tiene a Gubbio. Durante l’anno, come fondatore del festival, portava la sua scuola in rappresentanza, facendoci esibire nei teatri più importanti d’Italia, come quelli di Andria, Torino, Milano, Firenze, Roma, e altri. In queste occasioni, spesso venivano a trovarci Carla Fracci, Anna Razzi, Marga Nativo, che lui aveva conosciuto come partner al Comunale di Firenze o alla Fenice di Venezia… In quelle occasioni, mi faceva salire sul palcoscenico prima della prova o dopo, per provare gli equilibri, i giri, dato che molti palcoscenici erano in pendenza. Mi dava anche lezioni sull’importanza dello sguardo quando si danza, sulla camminata, sulla corsa e mi diceva “da come si entra e si esce dal palco si capiscono molte cose del danzatore”. Devo dire che ciò che riesco a trasferire meglio ai miei allievi è proprio quello che mi ha fatto provare sulla mia pelle e, infatti, i miei allievi saltano e girano come trottole! Purtroppo, ad un certo punto, iniziai a sentirmi un po’ stretta. Il mio desiderio era quello di diplomarmi all’Accademia Nazionale di Danza di Roma, che all’epoca era molto selettiva e professionalizzante, ma questa scelta non era condivisa dal Maestro, che pensava fosse troppo presto per me. Nonostante ciò, iniziai a fare stage in segreto (dato che non mi permetteva di studiare altrove se non in occasioni da lui autorizzate) e conobbi Clarissa Mucci. Ignara di tutto, a fine lezione mi disse: “Perché non provi a fare l’ammissione in Accademia?”. Lo interpretai come un segno del destino, così decisi di fare il provino e fui ammessa con grande gioia. Mi trasferii a Roma… ma questo ebbe un prezzo altissimo: mi allontanò definitivamente dal Maestro. Penso che anche lui ne soffrì, e non lo rividi più. Ogni tanto ci penso e vorrei che sapesse che lo porto sempre con me. Non a caso, parlo di lui anche oggi”.

Tra i tuoi lavori, l’esperienza con la compagnia di Micha Van Hoecke… i tuoi ricordi.

“L’esperienza con la compagnia Ensemble di Micha Van Hoecke è stata una delle più formative della mia carriera artistica. Io sono toscana e la compagnia aveva la sua sede a Castiglioncello e poi a Rosignano. Quando ero piccola, al Castello Pasquini si organizzava uno stage internazionale che il Maestro Fiumicelli ci permetteva di seguire, e in quel periodo Micha Van Hoecke teneva lezioni anche ai più giovani. Era un periodo prolifero per la sua compagnia, sempre alla ricerca di talenti. Un giorno, mentre guardavo la lezione dei “grandi”, Micha, al termine della sua classe, si avvicinò a una danzatrice, Michela Caccavale, l’ultima della fila, e le chiese di entrare a far parte della compagnia. Fu un momento di grande risonanza, perché Micha aveva scelto una ragazza che sarebbe diventata uno dei pilastri della compagnia. Ricordo che dissi a mia mamma: “Chissà, forse un giorno capiterà anche a me”. Tra l’altro, facemmo una foto che gli mostrai appena fui entrata in compagnia, e lui mi disse: “Facciamone un’altra oggi, così ti ricorderai di aver lavorato nel ‘grande bazar di Micha’. Continuai per la mia strada formandomi come danzatrice classica, finché, dopo aver terminato il mio contratto con il Balletto di Toscana, vidi un’audizione per la compagnia Ensemble di Micha Van Hoecke a Milano. Mi chiesi perché cercasse danzatori, dato che la sua compagnia aveva già artisti stabili, ma incuriosita decisi comunque di partecipare. Ricordo ancora la coreografia mostrata da Serena Ferri (poi diventata una mia carissima amica e collega): una combinazione ricca di tecnica, salti, giri, forza, ma che allo stesso tempo raccontava una storia. Mi sentii subito a casa. Micha mi prese e rimasi cinque anni nella sua compagnia. Fu un’esperienza che mi ha insegnato i veri valori dell’arte. In quel lavoro non c’erano sindacati, orari o diritti burocratici; Micha pretendeva il massimo ogni giorno, altrimenti eri fuori. Tutti dovevamo fare la lezione di classico la mattina, con Marzia Falcon, che era la prima ad arrivare e l’ultima ad andarsene dalla sala danza. La presenza, la disponibilità a mettersi in gioco, la capacità di fare cose che lui vedeva in noi (e non quelle che già sapevamo fare) erano essenziali. Micha ci accompagnava alla scoperta di noi stessi come artisti, e bisognava essere pronti anche ad accettare che, dopo una giornata di lavoro, se il risultato non lo soddisfaceva, se ne andava senza dirci nulla. Ogni volta che iniziava una creazione, Micha sapeva quale ruolo darci. Condivideva con noi la sua visione dello spettacolo, le musiche scelte e il perché, le luci… non dovevamo essere solo esecutori, ma autori e protagonisti. Noi facevamo tutto, dalla sistemazione dei costumi prima e dopo lo spettacolo, al trucco, alla gestione degli oggetti di scena (a meno che non si trattasse di produzioni teatrali, ovviamente). Alla fine di ogni lavoro bastava un semplice “merci les enfants” per ripagarci di ogni fatica. Niente era scontato. Ho imparato a superare i miei limiti in scena, e questa esperienza non ha prezzo. È stata un’esperienza che mi ha arricchita e che desidero condividere con i giovani danzatori, indipendentemente dallo stile che praticano, che sia classico o moderno. Purtroppo, dopo aver lasciato la compagnia (ma felice perché lì conobbi mio marito Kristian Cellini), mi sono sentita dire, anche da istituzioni di grande rilievo, che aver lavorato con Micha Van Hoecke non dava abbastanza “punteggio” per un danzatore classico. Credo che sia stata una delle offese più grandi che abbia mai ricevuto, non solo io, ma anche la danza stessa”.

Un lavoro rimasto nel tuo cuore?

“Un lavoro che è rimasto nel mio cuore è stato quando sono entrata al Balletto di Toscana, diretto da Cristian Bozzolini, e ho avuto l’opportunità di lavorare con Carla Fracci. Un’esperienza che mi ha arricchita sotto ogni punto di vista sia come danzatrice che come persona”.

Hai realizzato il videocplip di Andrea Bocelli con la star Sergej Polunin. Com’è stata come esperienza?

“È stata un’esperienza del tutto imprevedibile. In quel periodo mi stavo orientando verso l’insegnamento, quando alla fine di un evento organizzato dalla Fondazione Andrea Bocelli, dove partecipavo con alcuni interventi performativi e mio marito Kristian Cellini curava gli aspetti coreografici, il direttore artistico e regista della serata, Alberto e Ilaria Bartalini, mi chiesero di partecipare al videoclip di Andrea Bocelli con Sergej Polunin. Il giorno dopo mi ritrovai sul set, con Kristian ancora una volta a curare i movimenti coreografici… ed io, alla fine del video, tra le braccia di Sergej Polunin”.

Da tempo sei Docente al Liceo Coreutico Convitto Nazionale Vittorio Emanuele, come ti giudichi come formatore?

“Cerco sempre di ricordarmi cosa significa essere allievo, consapevole che fare il formatore implica anche accettare la responsabilità di contribuire alla crescita dei ragazzi. Il mio obiettivo come docente è stimolare la curiosità degli studenti, aiutarli a scoprire le loro potenzialità e a riconoscere i loro punti deboli per migliorarsi, guidandoli nella giusta direzione. Credo molto nella formazione coreutica per chi ama la danza, e mi dispiace vedere che ancora oggi, anche tra gli “addetti ai lavori”, c’è scarsa consapevolezza riguardo il valore di un percorso liceale in danza. Questo succede perché non lo conoscono a fondo. Ma cosa c’è di più bello per un giovane che sogna di dedicarsi alla danza, se non frequentare un liceo che lo forma sia dal punto di  vista artistico che culturale? Per cercare di colmare questa lacuna, con uno spirito divulgativo, ho creato un podcast dal titolo “Liceo che danza”, dove spiego cosa sia il Liceo Coreutico, un percorso che unisce la danza all’educazione liceale, trasformandosi in studio, passione e futuro”.

Cosa guardi in un giovane danzatore?

“In primis guardo la tecnica, senza dubbio, ma subito dopo osservo la sua “testa” e la sua personalità. Quando al Liceo Coreutico facciamo l’esame di passaggio dal primo biennio al triennio, oltre ai ragazzi con talento innato, scelgo quelli che mostrano una predisposizione a donarsi allo studio, che sono costanti e accoglienti nei confronti delle correzioni, e che sono motivati. La motivazione non deve essere data dall’insegnante: è il ragazzo che deve essere appassionato, motivato e pronto ad accogliere le sfide. In quel caso, l’insegnante può davvero intervenire, perché lì c’è terreno fertile. Si può seminare anche il seme più prezioso, ma se il terreno non è fertile, non germoglierà mai. Se invece il terreno è vivo, il seme germoglierà, e l’insegnante, osservandolo, lo annaffierà, lo nutrirà e lo aiuterà a crescere nel miglior modo possibile”.

Il tuo pensiero sulla didattica coreutica italiana?

“Purtroppo, temo che si stia perdendo il senso profondo della didattica, quella parte della pedagogia che riguarda il processo di insegnamento-apprendimento e i relativi metodi. Specialmente nella danza classica, vedo spesso lezioni che, come le definisco io, sono “impacchettate”, magari prese da internet, ma che un occhio attento riconoscerebbe come esercizi eseguiti per imitazione, senza una reale “comprensione profonda”. Forse sarò una voce fuori dal coro, ma uno dei valori aggiunti dell’aver partecipato e poi vinto due concorsi nazionali, straordinario e ordinario, per l’ammissione in ruolo come docente di tecnica della danza classica, è stata l’opportunità di studiare la pedagogia e la metodologia dell’insegnamento. La lezione va strutturata sull’allievo, progettata attentamente tenendo conto delle fasi di lavoro, non deve essere impattante ma funzionale. Per me, essere un insegnante significa mettersi continuamente in gioco, rimanere sempre allievo, chiedersi ogni giorno come fare per migliorare i propri studenti, aiutandoli tecnicamente. È fondamentale aggiornarsi, guardare cosa succede nel mondo della danza, confrontarsi con i colleghi e creare un ambiente di lavoro collaborativo, dove si scambiano idee, riflessioni e strategie metodologiche, per condividere una visione comune. E tutto questo, contrariamente a quanto si pensa, non significa essere teorici, ma aggiungere quella necessaria consapevolezza allo studio pratico”.

Progetti futuri?

“Dal punto di vista dell’insegnamento, sto coltivando la mia passione per la pedagogia e per la metodologia della danza insieme al mio collega, ormai carissimo amico, Gabriele Santoni, diplomato al Conservatorio Superiore di Musica e Danza di Lione. Insieme ci confrontiamo sulla formazione dei danzatori, sia in Italia che in Francia, dove oggi il processo di apprendimento è sempre più precoce. Il nostro obiettivo è creare un percorso formativo che rispetti le fasi evolutive dell’allievo e dell’apprendimento. Inoltre, per diffondere l’arte della danza anche attraverso strategie multimediali, sto lavorando per far crescere il mio podcast “Liceo che danza”, nato ad agosto, e ho in programma di pubblicare il mio secondo libro, dedicato al Liceo Coreutico”.

Un augurio e consiglio ai giovani danzatori italiani e di tutto il mondo.

“Il mio consiglio è di “sognare in grande” e di non perdersi mai, perché oltre alla passione, sono essenziali la dedizione, l’impegno, la pazienza e, soprattutto, la capacità di aspettare, di investire su se stessi e di gestire il proprio tempo con attenzione. Viviamo in un’epoca in cui i social media mettono in evidenza solo il risultato finale, trascurando il duro lavoro e il processo che per gli artisti è fondamentale. Questa illusione di immediatezza allontana i giovani dalla realtà. Invece, è proprio durante questo percorso “di attesa” che la vera vocazione per la danza trova il suo spazio. Bisogna sapere attendere e investire il tempo necessario per vedere fiorire i propri sogni. Perché non c’è niente di più bello che trasformare la propria passione nel proprio mestiere”.

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