di Francesca Ghezzani
Giorgio M. Ghezzi è nato a Milano nel 1970 e ha vissuto per oltre dieci anni in Romagna dove è stato assessore alla cultura e alle politiche educative del Comune di Bertinoro dal 2016 al 2019. Esperto di processi di apprendimento e sviluppo degli adulti, ha svolto attività di formazione e consulenza per importanti realtà nazionali e internazionali. Oggi è human resources manager di una grande azienda italiana. Agli impegni lavorativi ha sempre affiancato la scrittura di articoli, saggi e opere di narrativa, fra cui Simulando s’impara (FrancoAngeli, 2015) e No, non abbiamo figli. L’amore ai tempi dell’infertilità (Bookabook 2019).
Di recente è tornato in libreria con Quell’estate del 1980, pubblicato con la Società Editrice «Il Ponte Vecchio» nella collana Cammei.
Giorgio, nel 1980 avevi dieci anni. Che ricordo hai di quel periodo?
“Ho un ricordo felice, pieno di immagini e di volti che mi hanno poi accompagnato per tutta la vita: i banchi della scuola e i giochi con gli amici, la mia famiglia, la nonna che mi aiutava a fare i compiti, le vacanze estive al mare. I ricordi di ogni bambino con una infanzia sufficientemente serena e spensierata”.
Eppure erano gli anni del terrorismo e delle stragi.
“Di questo trovo poche tracce nella memoria: credo che il mondo dei grandi cercasse di proteggermi da quell’orrore semplicemente provando a nasconderlo. Solo diventando adulto ho incominciato a collegare alcuni ricordi ai fatti di quegli anni: gli “allarme bomba” che ci facevano uscire da scuola e che noi bambini festeggiavamo come un divertente diversivo, il volto preoccupato di mia mamma in quella mattina del marzo 1978 in cui fu rapito Moro. E poi, proprio nel 1980, l’omicidio Tobagi avvenuto a pochi passi dalla mia scuola di pianoforte: ricordo la lezione annullata e i controllori sul tram che mi riportava a casa. Delle stragi dell’estate 1980 per qualche anno ne ho saputo poco, e oggi non so dire se le immagini dei corpi nel mare di Ustica o quelle della stazione di Bologna sventrata da una bomba siano i ricordi del bambino o quelli dell’adulto che le ha poi viste centinaia di volte in tv. Ho voluto ambientare le vicende del libro nell’estate del 1980 proprio per provare a raccontare quali potevano essere gli stati d’animo e le emozioni di un adulto e di un bambino di fronte ai quei fatti tragici”.
Benito pensa di essere un uomo felice: è un architetto affermato e ama sua moglie Rosa, è un autorevole militante socialista ed è ben voluto dal paese che lo ha accolto nel cuore della Romagna. Senza svelarci troppo ti chiedo: eppure, nonostante queste rassicuranti premesse, cosa succede?
“Succede quello che molti di noi hanno sperimentato nella propria vita: a un certo punto le nostre certezze crollano e ci ritroviamo soli, incapaci di sostenere la realtà. Benito, il protagonista del romanzo, è un uomo come tanti che improvvisamente vede vacillare i propri punti di riferimento: l’amore, il lavoro, gli ideali, le speranze per il futuro. Accanto a lui il nipote Alfredo, voce narrante del romanzo, che nel 1980 ha solo dieci anni e prova a raccontare le vicende personali dello zio, mentre sullo sfondo si svolge la grande storia: un aereo si inabissa nel mare di Ustica e una bomba squarcia la stazione di Bologna”.
Torna la Romagna in queste pagine. Che attaccamento personale hai nei suoi confronti?
“Ho vissuto dodici anni in Romagna, prima a Forlì e poi a Bertinoro, uno dei borghi più belli d’Italia. Luoghi e persone sorprendenti, impossibili da dimenticare. Ambientare la storia proprio a Bertinoro è stato dapprima una scelta “tecnica” perché mi sembrava più facile descrivere luoghi che ho conosciuto e amato; ma poi è diventato un atto d’amore verso il paese che mi ha accolto”.
E verso la politica, invece?
“Non mi sono mai definito un politico, ma semplicemente un ‘civil servant’, una persona che per un periodo della sua vita ha messo le proprie competenze al servizio della collettività. È stata un’esperienza indimenticabile, non senza difficoltà ma anche ricca di soddisfazioni, che mi ha permesso di sperimentare quanto sia complesso amministrare la cosa pubblica. Un’esperienza che consiglio a tutti coloro che da dietro una tastiera criticano e giudicano i politici senza aver mai provato a impegnarsi in prima persona”.
In chiusura, sei ricorso a una forma narrativa che vede frammezzarsi il racconto in prima persona del nipote alle lettere e i diari dello zio, proponendo una visione multiforme degli accadimenti. È stato facile amalgamare il tutto e conciliare la storia personale alla Storia che si legge sui libri?
“È stata una bella sfida, soprattutto perché quando scrivo utilizzo solo una piccola dose di pianificazione, lasciando poi fluire la narrazione in direzioni talvolta non previste. Rendere il tutto coerente mi è costato molte riletture e qualche riscrittura. Queste in particolare sono state le più impegnative, perché tendo ad affezionarmi a quello che scrivo e così dover rinunciare alla prima stesura di alcuni capitoli è stata una sofferenza! E poi tanta documentazione sulle stragi di Ustica e Bologna. Ho usato poco i libri di storia, perché forniscono una lettura retrospettiva e fredda; ho preferito invece utilizzare i giornali dell’epoca perché dagli articoli emergono le incertezze e i dubbi, le ipotesi e le interpretazioni “a caldo” attingendo sia a quotidiani di area politica come il socialista ‘Avanti!’, sia ai grandi quotidiani nazionali: sul Corriere della Sera un giovanissimo Andrea Purgatori scriveva eccezionali articoli d’inchiesta sulla strage di Ustica. E poi ci sono le espressioni culturali di quegli anni: ho voluto inserire riferimenti a canzoni, film, pubblicità perché evocano immediatamente ricordi e immagini molto più di quanto possano farlo le parole”.