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Coaching, Psicologia e Intelligenza artificiale: Il raggiungimento degli obiettivi nella Modernità

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di Gianfranco Tomei, Docente di Psicologia Generale e Sociale – Università Roma Sapienza

 

Il Coaching è una disciplina anglosassone, nata in California, e affonda le proprie radici nella maieutica socratica, una pratica basata sul dialogo e sull’arte di porre domande aperte e chiuse per guidare l’individuo alla scoperta della verità dentro di sé.  L’importanza dell’introspezione nel coaching è evidente negli studi di Timothy Gallewey e John Whitmore. In particolare Galleway, nei suoi bestseller Inner Game of Golf e Inner Game of Tennis dimostra come la performance sia influenzata dall’equilibrio tra consapevolezza interna e stimoli esterni. Il coaching, pertanto, non si limita a trasmettere tecniche, ma sviluppa una mentalità capace di affrontare le sfide con lucidità e determinazione.

Dal punto di vista normativo, in Italia la Legge 4/2013 disciplina le professioni non regolamentate da albi, tra cui il coaching, evidenziandone la natura di professione di mercato. La professione è quindi libera, senza la necessità di accedere ad un albo professionale, fatto salvo il divieto di trattare persone che vivono un disagio mentale. Questo sottolinea il ruolo pratico del coaching nel mondo del lavoro e della crescita personale, rendendolo una disciplina dinamica e adattabile ai bisogni di aziende e privati.

Le basi teoriche del coaching si intrecciano con la psicologia umanistica, rappresentata da figure come Carl Rogers, Alfred Adler e Abraham Maslow. L’idea di autorealizzazione e di “eudaimonia”, concetto aristotelico di pieno sviluppo del potenziale umano, trova una diretta applicazione nel coaching moderno. Anche le ricerche del Mental Research Institute di Palo Alto hanno offerto contributi fondamentali, esplorando il ruolo della comunicazione e delle dinamiche interpersonali nel cambiamento comportamentale.

La Psicologia Umanistica è una corrente della psicologia nata negli anni cinquanta e sessanta come reazione alle visioni deterministiche della psicoanalisi e del comportamentismo. Si concentra sul potenziale umano, sulla crescita personale e sull’autorealizzazione. Carl Rogers sviluppò la terapia centrata sul cliente basata sull’idea che ogni individuo abbia una tendenza innata alla crescita e all’autorealizzazione. Il terapeuta deve fornire un ambiente caratterizzato da accettazione incondizionata, assenza di giudizio, empatia comprensione profonda delle emozioni del paziente e autenticità ovvero congruenza tra ciò che il terapeuta sente e ciò che esprime. Rogers riteneva che il benessere psicologico dipendesse dall’allineamento tra il sé reale e il sé ideale.

Alfred Adler, inizialmente vicino a Freud, si distaccò sviluppando la psicologia individuale. I suoi concetti chiave sono il sentimento di inferiorità, secondo cui gli esseri umani nascono con un senso di inferiorità che li spinge a migliorarsi. La spinta all’autorealizzazione è il desiderio di superare l’inferiorità che guida il comportamento, lo stile di vita che rappresenta il modo unico di affrontare il mondo e l’interesse sociale che indica il benessere raggiunto attraverso la connessione con gli altri e la partecipazione alla società. Adler sosteneva che i problemi psicologici derivano da una percezione distorta di sé e del proprio valore rispetto agli altri.

Abraham Maslow è noto per la sua gerarchia dei bisogni: un modello che descrive i livelli motivazionali dell’essere umano rappresentati come una piramide. Alla base ci sono i bisogni fisiologici come cibo, acqua e sonno seguiti dai bisogni di sicurezza che comprendono protezione e stabilità, dai bisogni di appartenenza che riguardano relazioni, amore e amicizia, dai bisogni di stima che includono autostima rispetto e riconoscimento sociale, fino ad arrivare all’autorealizzazione che rappresenta lo sviluppo del proprio potenziale di creatività e crescita personale. Secondo Maslow solo soddisfacendo i bisogni di livello inferiore si può aspirare ai livelli più alti e infine all’autorealizzazione.

Tutti e tre questi psicologi sottolineano il potenziale umano e la crescita personale. Rogers si concentra sulla relazione terapeutica e sulla congruenza tra sé reale e sé ideale. Adler enfatizza il ruolo dell’inferiorità e dell’interesse sociale nello sviluppo individuale. Maslow fornisce un modello motivazionale che spiega il percorso verso l’autorealizzazione. Questa visione umanistica ha influenzato la psicoterapia, la pedagogia e il coaching ponendo l’accento sulla crescita positiva dell’individuo.

Parallelamente, l’approccio comportamentista di B.F. Skinner ha influenzato il coaching attraverso l’uso di rinforzi e nudges (spinte gentili) per favorire cambiamenti positivi. Questo si collega al concetto di biopotere di Michel Foucault, che evidenzia come il controllo delle abitudini e dei comportamenti possa influenzare la società. L’evoluzione del coaching si lega oggi all’intelligenza artificiale e ai wearables, dispositivi indossabili che monitorano parametri fisiologici e comportamentali. Queste tecnologie permettono un approccio sempre più data-driven, facilitando il monitoraggio della performance e della crescita personale. Tuttavia, in un contesto dominato dalla sorveglianza digitale e dalle dinamiche di controllo sociale, emergono alcuni dei timori delineati nelle distopie di Aldous Huxley e George Orwell (Il mondo nuovo, 1984). Se da un lato la tecnologia offre strumenti innovativi per l’automiglioramento, dall’altro pone interrogativi etici sulla libertà individuale e sull’autodeterminazione. In un’epoca caratterizzata da cambiamenti rapidi e dalla crescente influenza dell’intelligenza artificiale, il ruolo del coach diventa cruciale per aiutare individui e aziende a navigare l’incertezza e a sviluppare il proprio potenziale in modo consapevole e sostenibile.

I dispositivi wearable stanno rivoluzionando il coaching, soprattutto in ambiti come benessere, produttività e leadership. Grazie a smartwatch, fitness tracker e occhiali AR/VR, il coaching può diventare più personalizzato e basato sui dati. Nel coaching per il benessere e la performance, i wearable permettono il monitoraggio di parametri fisiologici come frequenza cardiaca, livello di stress e qualità del sonno, offrendo consigli mirati sulla gestione dello stress e sulla produttività, mentre dispositivi come Apple Watch o Oura Ring possono inviare notifiche in tempo reale per la regolazione del respiro e il rilassamento. Nel coaching per la leadership e la comunicazione, sensori posturali come Upright Go aiutano ad analizzare postura e linguaggio del corpo durante meeting, mentre strumenti basati su intelligenza artificiale offrono feedback in tempo reale sulla modulazione della voce e sull’impatto della comunicazione. Nell’ambito del business e del team management, alcuni dispositivi tracciano le abitudini lavorative per prevenire il burnout, mentre soluzioni in realtà aumentata come Microsoft HoloLens permettono sessioni immersive e simulate. Nel coaching sportivo e nel mental training, i wearable rilevano dati biomeccanici per ottimizzare il gesto atletico e alcuni sensori EEG aiutano a migliorare concentrazione e gestione dello stress prima di performance importanti. Nel coaching per il benessere e la performance, strumenti come smartwatch, anelli intelligenti e fitness tracker raccolgono dati in tempo reale sulla frequenza cardiaca, la variabilità della frequenza cardiaca (HRV), i livelli di stress, la qualità del sonno e l’attività fisica. Questi dati permettono di adattare il coaching in modo personalizzato, ad esempio suggerendo momenti di rilassamento quando lo stress è elevato, notificando l’utente quando è necessario prendersi una pausa dal lavoro o analizzando trend nel tempo per migliorare il rendimento e la gestione dell’energia.

L’uso dei dispositivi wearable nel coaching offre molte opportunità, ma presenta anche alcuni aspetti negativi che vanno considerati attentamente. Uno dei principali problemi è la dipendenza dai dati, che può portare sia il coach che il cliente a concentrarsi eccessivamente sulle metriche quantitative, trascurando aspetti qualitativi e soggettivi del processo di crescita personale. Il rischio è che il coaching diventi troppo rigido, basato su numeri e statistiche piuttosto che su intuizioni e interazioni umane. Un altro aspetto da considerare è la barriera economica e tecnologica. Non tutti i clienti possono permettersi dispositivi avanzati, e non tutti sono disposti a utilizzarli costantemente. Alcune persone trovano scomodo o invadente indossare sensori tutto il giorno, mentre altri potrebbero avere difficoltà nell’interpretare correttamente i dati raccolti senza un’adeguata formazione. Questo può creare una disparità tra chi ha accesso a queste tecnologie e chi no, limitando l’applicabilità del coaching basato sui wearable.

Se analizziamo l’uso dei wearable nel coaching attraverso il pensiero di Michel Foucault, emergono diverse problematiche legate al biopotere, alla sorveglianza e alla disciplinarizzazione del corpo e della mente. Uno dei principali rischi è la trasformazione del coaching in un dispositivo di controllo che rientra nelle logiche della “società disciplinare” descritta da Foucault. I wearable, raccogliendo continuamente dati sul corpo e sulla mente, possono diventare strumenti di auto-sorveglianza che portano l’individuo a normarsi da solo, seguendo standard di produttività, benessere e performance imposti dall’esterno. Questa interiorizzazione della sorveglianza può generare una forma di soggettivazione regolata, in cui il soggetto diventa il proprio carceriere, sempre attento a correggere ogni deviazione dai parametri considerati ottimali. Il coaching, invece di essere un percorso di emancipazione, rischia di diventare un sistema di addestramento continuo, in cui l’individuo è costretto a misurarsi costantemente con modelli di comportamento prestabiliti. I wearable non si limitano a raccogliere dati personali, ma entrano nella dimensione della regolazione della vita biologica, trasformando il corpo in un oggetto di calcolo e ottimizzazione.

Se analizziamo il coaching mediato dall’intelligenza artificiale attraverso il pensiero di Shoshana Zuboff, in particolare la sua teoria del capitalismo della sorveglianza, emergono criticità legate alla raccolta massiva di dati, alla manipolazione comportamentale e alla perdita della libertà individuale. L’IA nel coaching, invece di essere uno strumento neutrale per la crescita personale, rischia di diventare parte di un sistema di estrazione e sfruttamento dei dati umani, in cui le persone non sono più utenti ma fonti di valore economico. Secondo Zuboff, le grandi aziende tecnologiche hanno creato un modello economico basato sulla raccolta, analisi e vendita di dati comportamentali. Questo significa che ogni interazione con un sistema basato su IA (che si tratti di coaching sulla produttività, sulla salute mentale o sulla leadership) può essere registrata e trasformata in previsioni di comportamento. Il coaching non è più solo un servizio, ma una forma di estrazione di surplus comportamentale, ovvero di dati che possono essere monetizzati attraverso la pubblicità mirata o la vendita a terze parti.

Un’altra grande preoccupazione è la perdita di autonomia e di autodeterminazione. Le persone che si affidano a sistemi di IA per il coaching finiscono per delegare sempre più decisioni alla tecnologia, riducendo la loro capacità critica e il loro senso di agency. Questo fenomeno è parte di quella che Zuboff chiama Dispossession by surveillance, ovvero il processo in cui gli individui vengono privati della loro libertà decisionale senza nemmeno accorgersene. Il risultato è che, invece di promuovere una crescita individuale autentica, il coaching può trasformarsi in un sistema che spinge le persone a conformarsi a un modello unico di produttività, benessere o successo, definito da chi controlla gli algoritmi.

L’intelligenza artificiale nel coaching potrebbe trasformarsi in un nuovo strumento di governo delle persone, in cui la libertà individuale è progressivamente erosa da un sistema che conosce sempre meglio i nostri punti deboli e sa come influenzarci senza che ce ne accorgiamo. Il vero rischio è che, nella ricerca continua di ottimizzazione e miglioramento, gli individui finiscano per cedere il controllo della propria identità e delle proprie scelte a un algoritmo che li conosce meglio di loro stessi.

Se applicassimo il pensiero di Zuboff al Coaching digitale, vedremmo che non si tratta solo di una questione di efficienza o di miglioramento personale, ma di potere e controllo. Chi possiede i dati possiede anche il potere di determinare quali comportamenti sono desiderabili e quali no, quali modelli di successo vengono promossi e quali vengono esclusi. Il coaching basato sull’IA, se non regolato con attenzione, potrebbe diventare non uno strumento di emancipazione, ma un meccanismo invisibile di condizionamento sociale ed economico.

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