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Massimo Paravani: “Il mondo ha la forma di un pallone”

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Lui è un personaggio poliedrico. E’ scrittore, artista e opinionista radiotelevisivo. Nutre una passione smisurata per il calcio, lo sport e l’arte.

Proprio di recente ha pubblicato la sua ultima opera letteraria: “Il mondo ha la forma di un pallone”. Ce lo racconta direttamente Massimo Paravani attraverso questa intervista.

“Il mondo ha la forma di un pallone”, un titolo che fa intuire che il calcio sia il tema portante del tuo libro. Giusto?

“Sì, è giusto, il calcio è l’argomento principale del libro, ma non si parla solo di calcio, anzi, per alcuni aspetti il calcio diventa quasi lo strumento per raccontare altro e di più. Attraverso quasi 70 anni di storia del football (da Puskas, quindi inizio anni ’50, fino a Totti e Del Piero, seconda decade degli anni 2000) si racconta anche una parte del mondo che via via è andato cambiando. Johan Cruijff, solo per fare un esempio, è il “prodotto calcistico” di un Paese, l’Olanda, che in quel periodo stava vivendo un momento importante di trasformazione culturale e sociale. Il celebre “calcio totale” è solo la trasposizione sportiva di un movimento che si stava espandendo in molti ambiti, non a caso si parlerà anche di “architettura totale” ad esempio. La Lazio di Giorgio Chinaglia e dello scudetto del 1974 si cala perfettamente nel clima complicato della metà degli anni ’70; i due “universi” si toccano indubbiamente, ma anche inevitabilmente. Il calcio è lo specchio che restituisce un’immagine, certo parziale, ma veritiera della società, perché se è vero che “Il mondo ha la forma di un pallone” è altrettanto vero che anche il pallone ha la forma del mondo”.

Come ti è venuta l’idea? Cosa ti ha ispirato?

“Innanzitutto l’amore per il calcio, per la pittura e per la scrittura. Ho realizzato alcune tele su questi campioni e mentre lo facevo mi è venuta voglia di raccontarli anche a parole e non solo con i disegni e i colori. Ma volevo farlo in un modo diverso, cercando di scavare nelle vite dei campioni e nel mondo che hanno abitato. Volevo farlo anche raccontando una storia che potesse contenere tutte queste vite. Ho descritto quindi l’ultima notte che un pittore passa nella casa che sta per abbandonare. Il ritrovamento di 16 tele sulle leggende del calcio che aveva realizzato anni prima sarà il pretesto per intraprendere un viaggio nel tempo.  Il calcio ha segnato gli anni della mia vita, ne ha scandito le varie fasi e questa credo sia una cosa comune a molti di noi, anche magari non così appassionati come me. Ci ricordiamo dove eravamo la sera della finale Mundial del 1982, o di Roma-Liverpool dell’84 o ancora di Germania 2006. Con chi eravamo, come abbiamo festeggiato o smaltito l’eventuale delusione. Tutto questo bagaglio di emozioni in memoria è quello che volevo raccontare. Del resto cosa c’è di più bello, vitale e profondo delle emozioni?”.

Qual è il fil rouge che lega le storie che narri nel libro?

“Ce n’è più di uno. Il primo, quello che regge tutta la struttura del libro, riguarda la scelta dei protagonisti. Ovviamente sono tutti campioni, ma questa caratteristica, nella mia selezione, non era sufficiente. Volevo di più, cercavo oltre. Il minimo comune denominatore sono le loro storie: tutti hanno una storia importante da raccontare e tutti sono simboli, miti, leggende. Menzionare uno di quei nomi significa evocare una squadra, una tifoseria, un popolo, un’epoca. Se dico Gigi Riva immediatamente penso al Cagliari e a Cagliari, alla Sardegna, al mare, a un popolo, ad un periodo irripetibile dove i soldi non erano tutto, dove c’era ancora spazio per quei valori che oggi si stanno perdendo. Poi c’è un altro filo che lega queste storie, ma questo è più casuale e frutto di un giochino che durante la stesura del libro mi è venuto in mente. Tranne Pelè che, per una sorta di rispetto dovuto, ho scelto come primo capitolo, le altre storie si sono susseguite con un ordine casuale. Il “giochino” è stato trovare un legame tra una storia e la successiva senza averlo prestabilito prima, una sorta di sfida per trovare punti di contatto. Alcuni sono stati semplici e inevitabili, come per esempio Cruijff che precede scontatamente il suo erede naturale Van Basten, ma alcuni sono stati veramente particolari. Senza voler “spoilerare” niente posso anticipare che del “punto di contatto” tra Giorgio Chinaglia e George Best ne vado particolarmente fiero!”.

Parli dei più grandi calciatori, quelli che hanno avuto le storie più particolari?

“Sì, certo. Come ho già detto prima, l’aspetto calcistico non è stato l’unico che ho tenuto in considerazione nella selezione del mio “Dream Team”! L’aspetto umano e le vicende personali sono stati decisivi. Come non citare, a dimostrazione di questa mia affermazione, la scelta di raccontare la storia straziante di Gigi Meroni?! Questa modalità ho cercato di metterla in atto non soltanto raccontando storie particolari, ma anche cercando di evidenziare momenti e aspetti meno noti nelle vite, diciamo così, più “normali”: Il bambino Del Piero che si allena calciando la pallina da tennis nel salotto di casa, il problema dell’alcolismo di George Best che gli sarà fatale, Il bimbo Maradona che palleggia allo stadio negli intervalli delle partite della prima squadra e il pubblico che non vuole che smetta. Nel libro c’è sì calcio, ma c’è anche molta vita”.

Tra i calciatori che narri nel libro, qual è quello che è rimasto nel tuo cuore?

“È un po’ come chiedere: a chi vuoi più bene a mamma o a papà? Scherzi a parte, li ho adorati tutti ovviamente sia perché rappresentano quel calcio che amo sia perché per raccontarli con la dovuta e necessaria passione non potevo fare altrimenti. Io sono “Romanista” nel DNA, quindi ho un’endemica, genetica, inevitabile, religiosa predilezione per Bruno Conti, Paulo Roberto Falcao e Francesco Totti che spero non traspaia in maniera evidente tra le pagine. All’inizio temevo che questa mia inclinazione giallorossa potesse inficiare in qualche modo la buona riuscita del libro, la mia attendibilità. Temevo potesse verificarsi uno squilibrio tra i vari capitoli soprattutto a sfavore di campioni come Chinaglia, storico “avversario” biancoceleste. Con mia grande soddisfazione e sollievo, ho trovato però quasi subito la chiave di volta per risolvere il problema: tornare a quando ero bambino e vedere il calcio in quel modo puro. Ricordo perfettamente quel periodo… ero sì assolutamente “Romanista” (lo sono da prima di venire al mondo!) ma amavo e ammiravo tutte le squadre, non era presente nella mia anima ancora candida nessuna traccia di quella bruttissima abitudine che c’è nel calcio di “Tifare contro”. Quella è stata la soluzione e posso dire una cosa al riguardo: questa “regressione” mi ha fatto benissimo, oggi ho recuperato un po’ di quel sano equilibrio che fa vivere meglio!”.

Non è il primo libro che scrivi, ce ne sono altri scritti a quattro mani. Li possiamo ricordare?

“Questo è il mio terzo lavoro. Il primo, del 2013, è “Ho letto che è per sempre”, una raccolta di 8 racconti che ho pubblicato con Lampi di stampa. Ricordo con piacere quella raccolta, il mio primo, timido, ingenuo tentativo di mettere su carta le mie emozioni. È un libro che è fortemente caratterizzato dall’aspetto emozionale, ci sono alcuni racconti anche molto toccanti, come quello d’apertura che racconta la tragica vicenda di Alfredino Rampi dal punto di vista di un bambino (io) che l’ha vissuta da vicino. Ma ci sono anche racconti più leggeri e ricchi di speranza. Il secondo libro è stato scritto insieme alla mia amica giornalista Susanna Marcellini e si intitola “L’anno magico”. È un libro del 2023 che celebra i 40 anni dal secondo scudetto dell’A.S. Roma. Quando mi proposero di scrivere di quello scudetto non riuscivo a crederci, più volte mi è sembrato di sognare. Per me, che come ho già ampiamente dichiarato, sono “Romanista” in ogni cellula del mio corpo, quella squadra è la Roma più bella di tutti i tempi, o comunque quella che amo di più, quindi poterne scrivere è stato veramente un’esperienza quasi trascendentale! Inoltre questo libro mi ha dato l’opportunità, per me incredibile e che mai avrei immaginato realizzabile, di poter parlare con quelli che da sempre sono stati i miei eroi calcistici. Non voglio fare nomi altrimenti dovrei citarli tutti e la lista sarebbe lunghissima, ma parlare con loro e ascoltare i racconti di quel periodo fantastico è stata un’emozione che non potrò mai descrivere in maniera adatta e che mai dimenticherò”.

Qual è il messaggio del tuo libro?

“Non c’è un vero è proprio messaggio. Diciamo che vorrei far comprendere a chi tratta il calcio in maniera troppo snob, che quei 22 “omoni” in mutande su un prato verde non sono solo quello. C’è molto, molto, molto di più. Le pagine del libro sono pervase da una leggera e romantica nostalgia, quella che arriva inevitabile quando si va ad aprire la scatola dei ricordi. Ho provato a scrivere di calcio attingendo ai campi più disparati, provando a parlare di Maradona citando De André; per descrivere l’Olanda nei primi anni ’60 sono ricorso a Camus; Cruijff l’ho equiparato a “…l’opera d’arte figlia del suo tempo…” di cui scriveva Kandinsky e così via. Qualcuno diceva “chi sa solo di calcio non sa niente di calcio”. Ecco, forse il mio libro prova a certificare quest’affermazione”.

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